La storia millenaria del Giappone è intrecciata con quella del sake: il filosofo e monaco buddista Kenko, nel libro Momenti d’ozio ne parlava già nel XIV secolo.
Noi occidentali dovremmo sapere che alzando il bicchiere si dice “Kampai”, pronunciandolo senza accenti.
Ma sapete cos’è il sake?
Cos’è il sake?
Non è un vino di riso, neppure un liquore, un distillato e tantomeno una specie di birra: è una bevanda alcolica dai 13 ai 18 gradi ottenuta da una doppia fermentazione; Una prima è indotta da un microrganismo (una muffa) chiamata koji, e la seconda e da un lievito detto kobo.
Esiste una vasta gamma di sake, ufficialmente sono divisi in tre tipologie: Ginjoshi, Junmaishu, Honjozushu.
Ad influenzare il sapore sono la tipologia di riso, l’acqua, il metodo di raffinazione del riso, il koji, il tipo di lievito e la pastorizzazione.
Come sta cambiano la cultura del sake?
Il mondo del sake sta cambiando profondamente. Nessun anziano giapponese, sorseggiando sake in un masu, sorta di scatolina di cedro, avrebbe immaginato di vedere il nipote degustarlo in un bicchiere di vetro invece che nel vecchio bicchierino di ceramica.
Sul fondo delle ciotoline da degustazione, è disegnata una spirale blu che fa risaltare i difetti: il sake dev’essere limpido.
A dimostrazione del cambiamento, il Fine Sake Award 2017, concorso che ogni anno a febbraio decreta i migliori sake di tutto il Giappone, nelle ultime edizioni ha adottato per le finali di assaggio il wineglass method, appunto il bicchiere da degustazione.
Come si serve e consuma il sake?
Si consuma in tutte le stagioni e raramente viene conservato per più di un anno, tranne per il Koshu, ovvero il sake invecchiato che prende un sapere simile allo cherry, noci e spezie.
Se i più delicati e raffinati danno il meglio bevuti intorno ai 7°, come il vino bianco, restano comunque apprezzabili anche a temperatura ambiente. Alcuni tipi, se riscaldati a bagnomaria sino a 40° o 50° sviluppano complessità e corposità eccellenti. Negli ultimi anni si sta producendo una sorta di sake sparkling che ricorda le bollicine occidentali. I produttori sono circa 2000 in tutto il Giappone e vanno da Hokkaido a Okinawa.
Assaggiarlo fresco è tutta un’altra cosa. Solo alcuni risi con il chicco più grande e caro diventano sake. Dopo la raccolta inizia la produzione. Il momento cruciale è l’aggiunta di koji: un enzima ricavato dal riso ed è l’anima del sake, la bacchetta magica che fa il miracolo. È il koji che trasforma l’amido di riso in glucosio. Poi si aggiunge il lievito: ecco perché si parla di doppia fermentazione multipla e parallela.
YOIGOKOCHI SAKE IMPORTERS
“Il successo della Yoigokochi Sake Importers, è il successo nato dalla collaborazione e dall’entusiasmo di degustatori e selezionatori professionisti, appassionati del Giappone e del Sake, sempre alla ricerca del massimo risultato qualitativo.”
La società, è situata nei Paesi Bassi e fondata da Dick Stegewerns nel 2011, e si caratterizza per la sua proposta particolarmente completa, ben pensata ed equilibrata, di distillati di alto profilo (Yoigokochi), privi di additivi, zuccheri e aromatizzanti artificiali.
L’idea generale, anzi la missione della Yoigokochi Sake Importers, è quella di far conoscere le svariate tipologie di Sake esistenti e prodotte in Giappone, selezionando solamente piccoli e rigorosi produttori artigianali.
Tra questi c’è il Ota Kokoro Sake:
Cristallino. Al naso è profondo e si esprime con sentori netti di riso. Al palato è ricco, potente, con una decisa nota umami; di buona persistenza, prodotto in un numero davvero limitato di bottiglie, è particolarmente invitante grazie ad aromi freschi e ricercati ed è, inoltre, un sake dall’ottimo rapporto prezzo/qualità.